Stefano W. Pasquini
Ci sono artisti che attraversano con leggerezza le correnti e i decenni. Senza fissarsi in uno stile, senza chiudersi in un codice. Uno di questi è Stefano W. Pasquini, che ormai da più di tre lustri affronta il panorama internazionale senza soggezione, e si sbilancia in opere e azioni che farebbero tremare il più impavido degli hacker. Passato per Londra, “cresciuto” a New York, tornato a Bologna dove è succeduto a suo padre, da cui la W di intermezzo come accade quando il rampollo è destinato al successo, Pasquini sa che l’arte è una continua sfida con se stesso, che la vittoria arriverà solo quando, sicuro e tranquillo, avrà ottenuto un risultato vero, non fatto di consensi di amici e conoscenti, come purtroppo capita troppo spesso.
Così non si preoccupa di cambiare stile e contenuti: passando dalla performance interattiva – quando ad esempio si mascherava da uomo ragno, seduto e inerte per le strade di Londra – al video duro e puro – come quando si sotterra mani e piedi nel bosco e comincia a urlare a squarciagola. Oppure non teme il ritorno alla pittura, ritraendo con tratto veloce e sintetico se stesso o personaggi celebri dello zoo dei mass media. O rifugge il qualunquismo per toccare l’ambito politico, passando dal ritratto in scultura di Aldo Moro, tragicamente massacrato come apparve nel bagagliaio della Renault in via Caetani, a performance in cui una serie di persone su piedistalli alza la mano in un saluto fascista. E poi non mancano disegni, scritte, collage, fotografie: forme diverse di creatività transeunte, spontanea. Una volta si sarebbe detto mancanza di coerenza. Oggi tutto ciò sembra rappresentare la reazione immediata e istintiva ai colpi di scena incoerenti che ci propina la cronaca. O la vita comune, che è ormai la stessa cosa. E così, mentre i ragazzi della performance fascista salgono sul piedistallo, l’arte ne discende, e compie un salto tra le cose di casa.
Se si dovesse cercare una costante, più che nella qualità delle opere la dovremmo individuare nella quantità. Fin da quel 2004 in cui Stefano W. Pasquini si propose di realizzare un’opera al giorno, fosse essa un lavoro compiuto, oppure un semplice resto, una scoria di una piccola storia nel percorso della vita. Per poi finire poco dopo ad inscenare una vendita all’asta, una di quelle in cui le opere sono come prodotti da supermarket e le parole contano più dell’immagine, con un banditore simile a Willy Montini che potrebbe anche diventare Vanna Marchi.
L’arte scivola verso il gioco, l’ironia, anche nei confronti di se stessa. Tra i progetti immateriali di Stefano W. Pasquini ci sta anche una Facebook Biennale, una biennale a cui tutti possono partecipare. Dove poi, una volta lanciato l’annuncio, il problema consiste nel capire che cosa realmente sarà, per riconoscere infine che l’adesione è già la mostra, il gruppo raccolto su internet senza alcuna selezione. Da questo e altri progetti si intuisce quanto l’artista sia debitore del potere espansivo, virale, delle nuove tecnologie, quasi fino a scomparire come artefice per lasciare al lavoro una sua propria vita, un’autonoma capacità di definizione e di espansione.
Ma poi ci sono i tic, i guizzi personali. Sono questi che fanno riconoscere l’artista. Ad esempio la disinvolta sciatteria con cui Stefano W. Pasquini usa il nastro adesivo per avviluppare un santino o un’immagine del papa ad una pietra. Un gesto semplice, sottilmente brutale, che dà luogo a una stabilità precaria, come se il lavoro artistico fosse un passaggio, un segno posto temporaneamente in attesa di un supporto maggiore, quasi un monumentino sul ciglio della strada per ricordare un incidente fino a quando non arriverà una costruzione più solida in muratura. Così molti lavori appaiono volutamente simili alla creatività spontanea di un adolescente per la sua cameretta: disegni, collage, motti di spirito. Battute temporanee che fermano un attimo nell’evoluzione della vita. Insomma, l’arte per Stefano W. Pasquini è un blog, un luogo in cui confrontarsi con le diverse parti di se stesso incomprensibili prima di tutto a se stesso.
Così, se si volesse individuare una costante, un carattere tipico, lo si potrebbe trovare proprio nella temporaneità, nella precarietà di cui si alimentano le sue invenzioni. Prendete una delle ultime opere, che nasce prima di tutto come immagine, una scritta che richiama il rischio e la paura, Frightening Figure, a costruire un periclitante ponticello di assi trovate. O guardate i tanti assemblaggi con cui realizza dei piccoli monumenti, strutture sbilenche dove l’organicità di un legno naturale incontra l’artificialità di un accendino o dei resti di una scatola di medicine. Sono esili manifestazioni di instabilità, attimi di sosta nella transitorietà dell’esistenza.
Così c’è anche una profonda malinconia a venare la visione di Stefano W. Pasquini. Una malinconia intrinseca, asciutta, che non porta allo scoraggiamento, ma disvela il passato come il luogo delle speranze irrealizzate.
Sono finiti gli anni Novanta? Quegli anni ricchi di utopie concrete, politiche e artistiche, dai No Global agli Young British Artists? Sono ormai definitivamente superati quegli anni pregni dell’idea di una espansione infinita, di una possibilità di democrazia dal basso, di un comunismo reale grazie al comunismo informatico realizzato dalla rete? Oggi che scopriamo che internet non è poi così aperto, che in molte parti vi regna la censura e il diritto di riproduzione frena la ricerca, che la nostra società sembra andare più verso un totalitarismo gelatinoso anziché verso la libertà dei singoli, allora sì, gli anni Novanta sono proprio finiti. E l’arte non può che sottolineare questo cambiamento. E se alcuni anni fa un piccolo disegno di Pasquini consisteva in una scritta, Damien, let me be your Giacomo Grosso, oggi si chiude con un’altra, un testo diverso: Once I was a YBA. Amara rivalsa per chi nel 1992 aveva già avuto l’intuizione di intervistare Jay Jopling.
Fabio Cavallucci, 2010
P.S. E l’impressionismo del titolo – dimenticavo – cosa ci sta a fare? Beh, quello serve ad attirare il pubblico. L’arte, ormai mercato degli anni Duemila, deve usare strategie di marketing raffinate… E l’impressionismo funziona sempre.
P.P.S. Vi sembra poco, questa visione dell’arte e della vita? Ebbene, a me pare la più giusta e coerente con i tempi.